I prezzi di trasferimento infragruppo devono essere equivalenti a quelli attuati tra imprese indipendenti. È questo l’elemento cardine contenuto nella disciplina del transfer pricing, altresì affermato in molteplici sentenze (da ultimo, dalla pronuncia della Corte di Cassazione n. 9615 del 5 aprile 2019 in caso di applicazione di royalties).
Ai sensi dell’articolo 9 del modello di convenzione Ocse, infatti, l’Amministrazione finanziaria è chiamata a verificare l’osservanza del principio di libera concorrenza da parte di soggetti societari appartenenti ad un determinato gruppo, in presenza di “compensazioni intenzionali”, ovvero, condizioni contrattuali di vantaggio solitamente riconosciute alle consociate (quali, accollo degli interessi moratori e dei costi di ristrutturazione, dilazione dei termini di pagamento, etc.) e potenzialmente idonee ad indurre un incremento o discremento dell’imponibile.
Occorre, altresì precisare che spetta al contribuente l’onere di provare la conformità delle operazioni ivi compiute agli ordinari valori di mercato, mentre all’Amministrazione finanziaria la mera sostanza economica, ovvero, la sussistenza di transazioni ad un prezzo apparentemente inferiore rispetto ad operazioni analoghe realizzate in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti (e non, quindi, il vantaggio fiscale effettivamente conseguito).
In questo modo, risulta possibile contrastare pratiche elusive all’interno del gruppo societario attraverso trasferimenti di utili da imprese italiane a imprese residenti in Paesi con fiscalità ridotta, sostituendo il valore soggettivo dell’operazione con quello oggettivo e normalizzato.
Alla luce di quanto esposto, diventa quindi di rilievo che il contribuente utilizzi al meglio gli strumenti giuridici (come il contratto) nelle operazioni infragruppo e detenga tutta la documentazione volta a comprovare il suo corretto operato in regime di “indipedenza economica”.
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